(…) Cinema di corpi, di messa in scena che fa perno e si ricentra su essi, quello di Andrea Adriatico; cinema del dolore, dell’assenza e cinema gay, che rivendica spazio all’identità omosessuale. Il vento, di sera, esordio nel lungometraggio di Adriatico (…) segna una nota di corroborante dissonanza rispetto alle convenzioni del nostro fare cinema. A cominciare da una produzione risolutamente indipendente, che non elemosina contributi all’interesse culturale nazionale, gira in digitale e, integra e liberata dal condizionamento di mercato, sceglie la circuitazione marginale di una distribuzione dedicata. La via alternativa, antagonista alle strutture dell’industria del cinema italiano, de Il vento, di sera si sustanzia in una ruvida alterità linguistica che lo colloca in una posizione a sé nel nostro panorama cinematografico, defilata ed impervia, coraggiosa e dirompente. Come Martone e Bene, Adriatico è uomo di teatro, teatro non parruccone o istituzionale, fondatore della compagnia :riflessi (1991) e di Teatri di Vita (1992), che si presta a ed esplora il mezzo cinema. Paradosso: nelle dialettiche iniezioni di chi s’è fatto sulle tavole del teatro si riscoprono, in un cinema italiano apparentato e compromesso da codici e remore depauperanti della televisione, complessità, multidimensionalità e sperimentazione di una messa in scena di cinema-cinema.
Movimenti di macchina, recitazione, lavoro sul sonoro e definizione di spazio e tempo ne Il vento, di sera prendono parte attiva in una vivida meccanica planetaria che ruota attorno al dato materiale e astratto dei corpi; corpi d’attore certo, ma ancor più corpi di carne e sangue, vivi e pulsanti, e, in ragion di questo, oggetti caduchi, pronti a dissolversi nell’istante. Adriatico – che ha certo ben presente il sodalizio Koltès-Chéreau, nonché il cinema di corpi di quest’ultimo – li filma in prossimità inaudita per il nostro cinema recente, li tallona, li ausculta, vi aderisce, vi danza intorno, ne penetra e dischiude il mistero, senza falsa pudicizia. In funzione del periplo tutto interiore di Paolo, Adriatico sfalda la topografia di una città (Bologna, mai esplicitamente menzionata), ridisegnandola in una slabbrata fluttuazione onirica. Il tempo si dilata, sospende, imprigionando nell’incredulità dell’incubo corpi sfiancati dal sonno, dall’afa, dal desiderio, dal peso di una solitudine che è soffocamento dell’anima.
E’ il corpo di Francesca che in un magistrale piano sequenza fende lo spazio, pochi metri, mille chilometri, e rimbalza sulla barriera sonora che separa il corpo del film dal suo pre-testo: la morte di Luca, l’assassinio di Raimondi. Il caso Biagi, esplicito riferimento pubblico, politico, contingente della sceneggiatura di Adriatico e Stefano Casi, è il prisma in cui si origina e rifrange l’essenza individuale e universale del film: il dolore della perdita, la ricerca di un fantasma, l’elaborazione del lutto. In un allucinato paesaggio di solitudini urbane, il Paolo di un intensissimo Corso Salani, unico che solo non era, insegue allo sfinimento un’ombra che dissolve nel lucore mattutino: l’altro, Luca, parte complementare di un tutto, rapita dal vento di sera (“Legati fragilmente al filo della vita come foglie che basta un poco di vento a far volare via“, la citazione da Koltès posta in esergo al film). Paolo scortica le nocche su un muro, come juliette Binoche nel Film blu di Kieslowski, epitome di un cinema della perdita, rifiuta la condivisione di una pena troppo grande per essere detta e indugia alle lusinghe del desiderio, per poi rifiutarle: stazioni che instradano all’accettazione di un addio e di un nuovo sé, mutilo, dimezzato.
Il vento, di sera è però pure il primo vero film gay italiano da tempo immemore. Non tanto perché sulla dorsale del tema universale della perdita Adriatico innesta le costole di una doverosa, quanto scolastica, critica sociale al mancato riconoscimento, non solo istituzionale, delle coppie di fatto: è l’aspetto meno riuscito del film, quello più volontariamente didascalico. L’interesse vero dell’elemento omosessuale de Il vento, di sera è lo sguardo dell’autore, la definizione di corpi, personaggi e dinamiche tra essi che ne scaturisce; Adriatico non media, per tema del mainstream, come Ozpetek: il suo è un film gay senza compromessi, senza ipocrite titubanze. A farne spese è il femminile: filtro irrinunciabile per guardare all’omosessualità in Ozpetek, in Adriatico la donna (Francesca) è necessaria ad una definizione contrastiva dell’identità omosessuale. L’inevitabile passaggio attraverso la misoginia per la specificazione di una singolarità gay, altrove percorso e superato da decenni, viene ora necessariamente (ri)vissuto (da Adriatico, come pure in parte da L’imbalsamatore di Garrone) in un cinema italiano ancorato ad un Paleolitico della rappresentazione dell’omosessualità. Sia il benvenuto, allorché si accompagna ad una riuscita di cinema tout court composita e stimolante quale Il vento, di sera.