Il vento, di sera

Legati fragilmente al filo della vita come foglie che basta un poco di vento a far volare via (Bernard-Marie Koltès). Quelle raccontata nel film è la notte più lunga di un uomo scaraventato là dove non avrebbe mai immaginato, ed è la notte più lunga di una città inconsapevolmente travolta dalla cronaca. Sono sentimenti intensi e occasioni leggere, smarrimenti e incontri. Occasioni perdute, come una vita volata via, una sera, con un po’ di vento…

Crediti

Il vento, di sera

un film di Andrea Adriatico per teatridivita

soggetto e sceneggiatura Stefano Casi, Andrea Adriatico

con Corso Salani, Francesca Mazza

e Fabio Valletta, Sergio Romano, Paolo Porto

e con Francesca Ballico, Paolo Billi, Giancarlo Cauteruccio,
Daniela Cotti, Franco Laffi, Luca Levi, Claudio Marchione,
Carlotta Miti, Gino Paccagnella, Marina Pitta,
Antonio Quarta, Ilie Rizan, Davide Sorlini,
Elena Souchilina, Matteo Tosi

e la partecipazione straordinaria di
Giovanni Lindo Ferretti, Alessandro Fullin, Ivano Marescotti

produzione Teatri di Vita 2004

distribuzione Vitagraph

produzione esecutiva Monica Nicoli

ispettore di produzione Daniela Cotti

aiuto regia Gianluca Genovese

montaggio e ottimizzazione Roberto Passuti

direttore della fotografia Gigi Martinucci

suono e musiche originali Roberto Passuti 

fonico di presa diretta Matteo Romagnoli

operatore di macchina Gigi Martinucci

operatore steadycam Alessandro Ruggeri

assistente operatore Antonio Quarta

assistente video Marianna Fratantoni

edizione Gianluca Bau

assistente al montaggio Gianluca Genovese

seconda unità audio Fabrizio Cabitza e Ivan Olgiati
per la Bottega di musica e comunicazione di Bologna

postproduzione audio Alessandro Saviozzi e Nicola Zonca
per Studio Arkì di Bologna

scenografi Andrea B. Cinelli e Maurizio Bovi

capo attrezzista Davide Sorlini

capo elettricista Massimiliano Agostini

capo macchinista Carlo Strata

effetti speciali Logical Art, Terni

costumista Andrea Cinelli

sarta Pia Pancotti

trucco Laura Maier

parrucchiere Diego
per I Monari Parrucchieri di Bologna

fotografo di scena Paolo Porto
con la collaborazione di Raffaella Cavalieri

ufficio stampa nazionale Studio Morabito, Roma

ufficio stampa di produzione Eugenio Tontini

amministrazione e marketing Emilio Ricciardi

musiche originali eseguite da Vincenzo De Franco, Gabriele Duma, Roberto Passuti, Erica Scherl
per ALISSAEnsemble

canzone Dal mondo (Ferretti – Magnelli – Maroccolo – Zamboni)
copyright 1994 by Universal Music Italia, Milano

sviluppo e stampa Augustus Color Roma
colorist Nicola Potena
film recording Tiziana Moscatelli

con il contributo della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna

PREMI

  • Primo Premio “Rosa d’Oro”
    Festival Roseto Opera Prima 2004
  • Premio per il miglior attore a Corso Salani 
    Clorofilla Film Festival 2005
  • Menzione di merito
    Jonio International Film Festival 2004

 

PARTECIPAZIONI A FESTIVALS E RASSEGNE

  • 54º Festival del Cinema di Berlino (D),
    International Forum of New Cinema, febbraio 2004 
    Prima assoluta
  • 6º Method Fest – Breakout Independent Film Festival, Burbank (USA), aprile 2004
  • 31º Festival du Film Européen, Bruxelles (B), aprile 2004
  • Crossing Europe, Linz (A), maggio 2004
  • 7º Mix Mexico, Sexual Diversity Film/Video Festival, Città del Messico (MEX), maggio-giugno 2004
  • 4º Open Roads, New Italian Cinema, Lincoln Center, New York (USA), giugno 2004
  • Florence Queer Festival, Firenze (I), giugno 2004
  • 28º San Francisco International Lesbian & Gay Film Festival, San Francisco (USA), giugno 2004
  • 9º Festival Roseto Opera Prima, Roseto degli Abruzzi, Teramo (I), luglio 2004
  • 7º Festival del Cinema Italiano, Gallio, Vicenza (I), luglio 2004
  • Festival “Cinema a Mezzogiorno”, Torella dei Lombardi, Avellino (I), luglio-agosto 2004
  • 8º Lisbon Gay and Lesbian Film Festival, Lisbona (P), settembre 2004
  • image+nation, Montreal’s International Queer Film Festival, Montreal (CAN), settembre-ottobre 2004
  • 15º Lesbisch Schwule Filmtage, Amburgo (D), ottobre 2004
  • 12º Mix Brasil, Festival of Sexual Diversity, Sao Paulo, Rio de Janeiro, Brasilia (BRA), novembre-dicembre 2004
  • 4º Roze Filmdagen, Amsterdam (NL), dicembre 2004
  • 2º Human Rights Film Festival, Zagabria (HR), dicembre 2004
  • 19º London Lesbian & Gay Film Festival, Londra (UK), marzo-aprile 2005
  • 4º Vuesdenface – Festival International du Film Gay et Lesbien, Grenoble (F), aprile 2005
  • Bellaria Film Festival Anteprima, Bellaria (I), giugno 2005
  • Clorofilla Film Festival, Rispescia, Parco della Maremma (I), agosto 2005
  • Austin Gay & Lesbian International Film Festival, Austin (USA), settembre-ottobre 2005
  • Italian Film Festival, Adelaide, Brisbane, Canberra, Melbourne, Perth, Sydney (AUS), ottobre-dicembre 2005
  • Bianco Film Festival, Perugia (I), maggio 2006
  • 42ª Mostra Internazionale del Nuovo Cinema – Pesaro Film Festival, Pesaro (I), giugno-luglio 2006
  • 9º Lodi Città Film Festival, Lodi (I), ottobre 2007
  • 1º Ecologico Film Festival, Nardò, Lecce (I), settembre 2008

Il film è stato inoltre programmato a Bari, Bologna, Catania, Dueville, Faenza, Ferrara, Genova, Ivrea, Mantova, Messina, Milano, Modena, Padova, Palermo, Parma, Piacenza, Ravenna, Reggio Emilia, Rimini, Roma, Taranto, Torino, Verona, Venezia; Darmstadt, Mannheim, Norimberga (Germania); Dogana (San Marino).

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Rassegna stampa

Quotidiani e riviste

(…) Ma basta la realtà a rovesciare lo sguardo? Vorremmo chiederlo a Andrea Adriatico che firma – al Forum – Il vento, di sera sceneggiatura scritta insieme a Stefano Casi, protagonisti Corso Salani e Francesca Mazza, apparizioni stranianti di Giovanni Lindo Ferretti, Ivano Marescotti, Giancarlo Cauteruccio. Adriatico e Casi vengono dal teatro, lavorano a Bologna da anni con i Teatri di vita (produttori del film), anche loro nell’ondata di scambio scena-schermo che sta trasformando in ricchezza da anni – basta pensare a Mario Martone – il cinema italiano. Ma Il vento, di sera non è un film teatrale, piuttosto lavora sulla teatralità, spazi vuoti di una Bologna notturna, straniata, spettrale, vuota, quasi irriconoscibile. Poi i corpi, la scrittura delle immagini che scivola sugli attori, sceglie primi piani, modella sulle sfumature delle loro emozioni ogni inquadratura. La storia racconta il dolore di una perdita, Paolo (Salani) che perde in un istante l’amore della vita, ammazzato sotto casa perché arrivato troppo tardi o troppo presto vedendo qualcosa che non avrebbe dovuto. Il punto è un altro: perché per raccontare un sentimento profondo e universale c’è stato bisogno di mettere sul film l’etichetta dell’attualità? L’inizio è un gioco di SMS, messaggi in codice che preparano un delitto. La vittima possibile uno dei tre uomini, Paolo, il suo ragazzo, un altro uomo che torna a casa in bicicletta. Abitano vicini, stesso cortile. E’ lui la vittima, scopriremo che è un uomo del governo e bici e Bologna ci portano naturalmente a Biagi. Ma Il vento, di sera non è un film sul terrorismo in Italia oggi, perché la cronaca scompare subito dopo, lasciando posto al privato, al dolore appunto, alla fatica di quel rapporto odiato dai genitori del ragazzo, non compreso dalle istituzioni, inesistente al mondo perché non matrimonio tradizionale. Forse la politica sta qui, dove c’è verità. Il resto è solo forzatura.

Inizia da Bologna, proseguendo poi a Roma e a Milano, al Mexico, la “tournée” di un film bello, civile e indipendente Il vento, di sera, applaudito al Forum di Berlino e diretto da Andrea Adriatico col supporto di un’organizzazione e un’esperienza teatrali.
Lanciato come una glossa sul caso Biagi, in realtà il film parte con un omicidio bolognese simile a quello, ma poi diventa altro, indagando sui riflessi che ha la morte di un testimone. Così stiamo per una notte in compagnia del dolore sommerso dell’amico gay della vittima, che tenta invano di razionalizzare la follia di una morte senza causa. Una notte di panico, solitudine, con un vano incontro casuale: la vita riemerge all’alba, smarrita, da un bar. Grazie alla sofferta, introversa misura di Corso Salani, il regista esprime coerente, in un film di sottintesi e sguardi intrecciati, la sofferenza individuale ma anche lo show della sofferenza organizzata dei mass media.

Parte bene questo buio gay movie selezionato per il Forum della 54ma Berlinale. Un omicidio politico a Bologna (ovvio il riferimento a Marco Biagi, con Ivano Marescotti a fare da vittima) e un testimone che non doveva trovarsi lì e freddato. Per il compagno di quest’ultimo inizia un viaggio nell’istupidimento della lunga notte alla ricerca di un equilibrio così atrocemente e repentinamente infranto. Ma il film, sino alla scena in ospedale serrato e avvincente, progressivamente si sfalda nei tormenti e nei giri a vuoto del protagonista (un Corso Salani molto maturato come attore), che, come un percorso a stazioni, incontra vario esemplari di fauna nottambula (tra cui Giovanni Lindo Ferretti in gratuito cameo).

Un uomo di fronte all’improvvisa e tragica perdita della persona amata. Poteva essere un tema a rischio (di lacrime, di retorica, di luoghi comuni) e invece Il vento, di sera riesce a evitare tutti i pericoli e portare lo spettatore a riflettere in maniera non superficiale sulla disperazione senza spiegazioni che la morte trascina con sé. Un traguardo ancora più encomiabile, poi, se si pensa che l’amore distrutto dal caso (involontario spettatore dell’assassinio di un uomo politico, un giovane avvocato è ucciso dal killer che vuole eliminare un pericoloso testimone) è un amore omosessuale: non una scelta provocatoria ma piuttosto un espediente narrativo che incrociandosi con alcune aporie della nostra legislazione (il medico che si rifiuta di dare notizie a chi “non è un parente”) o della nostra mentalità (la madre del morto che scarica sul compagno Paolo il suo odio omofobo) permette da una parte di riflettere sul grado (insufficiente) di civiltà del nostro paese e dall’altro rende ancora più dolorosa la condizione di solitudine del protagonista. Perché il cuore del film, che segue per una interminabile notte il girovagare di Paolo attraverso Bologna (a proposito: un regista esordiente che sceglie il buio invece della luce: anche questo è un merito da non sottovalutare), il senso profondo de Il vento, di sera è proprio l’impossibilità di convincersi dell’accaduto, di fare i conti con una realtà che improvvisamente appare crudele e straziante. Il film non vuole descrivere il dolore (sarebbe “immorale” ridurlo a lacrime e lamenti) ma piuttosto farci aprire gli occhi sulla solitudine del dolore, perché a tutti forse è capitato di sfiorare il tormento di una persona senza rendersene conto, senza accorgersene. Proprio come succede ai molti personaggi che Paolo casualmente incontra, dal giornalista a chi si diverte al cabaret, e la cui superficialità diventa all’improvviso insostenibile e disumana.

Il film riesce bene nel rendere lo spaesamento di chi si trova suo malgrado legato per sempre a un evento pubblico, esemplificato dal frequente uso del suono in soggettiva e dal pendolarismo della macchina da presa fra i corpi dei due uomini a terra, accomunati dalla stessa sorte. Riesce meno bene nella parte un po’ stereotipata dell’approccio di un ragazzo con maglietta alla “Querelle”, nel riferimento un po’ facile, en passant, alla precarietà della vita degli immigrati, per non parlare dell’imbarazzante insistenza sui cellulari dei protagonisti. Ciò non toglie che il film abbia un suo fascino notturno e il coraggio di affrontare, da un punto di vista inedito, un argomento quanto mai importante e attuale. Il vento, ormai, soffia a tutte le ore del giorno.

Ecco un bel film italiano: Il vento, di sera, presentato con successo alla Berlinale. (…) Il film di Andrea Adriatico, conosciuto finora per il pluripremiato corto Pugni e su di me si chiude un cielo, ha indubbie qualità. La storia è sfortunatamente verosimile, così come i tristi addentellati – si pensi alla tremenda quanto realistica scena dell’ospedale – e il viaggio di Paolo, accompagnato solo dal suo strazio, è narrato in punta di piedi, con un minimalismo che scava a fondo nei sentimenti senza essere retorico. In questo stile asciutto, che porta a galla l’essenza del dolore, tutto funziona bene, dalla recitazione alla fotografia che esalta l’asetticità di una città notturna inospitale e fredda. Peccato che l’idea di base non sia stata sviluppata ulteriormente e che le persone incontrate da Paolo siano lacerti un po’ approssimativi di un percorso incidentale e non essi stessi fonti di introspezione. Ma, al di là di qualche difetto – ad esempio, le diverse inflessioni dialettali che, lungi dallo spersonalizzare la città, finiscono col dare un tono un po’ macchiettistico – il film colpisce con la normalità con cui viene descritta la coppia Paolo/Luca, rara nel cinema italiano, e per la profondità con cui fa riflettere sul fatto che basta una zaffata di vento contraria (quella a cui si riferisce Bernard-Marie Koltès ricordato nei titoli di testa: “basta un poco di vento a farci volare via”), per distruggere irrimediabilmente delle vite.

(…) Cinema di corpi, di messa in scena che fa perno e si ricentra su essi, quello di Andrea Adriatico; cinema del dolore, dell’assenza e cinema gay, che rivendica spazio all’identità omosessuale. Il vento, di sera, esordio nel lungometraggio di Adriatico (…) segna una nota di corroborante dissonanza rispetto alle convenzioni del nostro fare cinema. A cominciare da una produzione risolutamente indipendente, che non elemosina contributi all’interesse culturale nazionale, gira in digitale e, integra e liberata dal condizionamento di mercato, sceglie la circuitazione marginale di una distribuzione dedicata. La via alternativa, antagonista alle strutture dell’industria del cinema italiano, de Il vento, di sera si sustanzia in una ruvida alterità linguistica che lo colloca in una posizione a sé nel nostro panorama cinematografico, defilata ed impervia, coraggiosa e dirompente. Come Martone e Bene, Adriatico è uomo di teatro, teatro non parruccone o istituzionale, fondatore della compagnia :riflessi (1991) e di Teatri di Vita (1992), che si presta a ed esplora il mezzo cinema. Paradosso: nelle dialettiche iniezioni di chi s’è fatto sulle tavole del teatro si riscoprono, in un cinema italiano apparentato e compromesso da codici e remore depauperanti della televisione, complessità, multidimensionalità e sperimentazione di una messa in scena di cinema-cinema.
Movimenti di macchina, recitazione, lavoro sul sonoro e definizione di spazio e tempo ne Il vento, di sera prendono parte attiva in una vivida meccanica planetaria che ruota attorno al dato materiale e astratto dei corpi; corpi d’attore certo, ma ancor più corpi di carne e sangue, vivi e pulsanti, e, in ragion di questo, oggetti caduchi, pronti a dissolversi nell’istante. Adriatico – che ha certo ben presente il sodalizio Koltès-Chéreau, nonché il cinema di corpi di quest’ultimo – li filma in prossimità inaudita per il nostro cinema recente, li tallona, li ausculta, vi aderisce, vi danza intorno, ne penetra e dischiude il mistero, senza falsa pudicizia. In funzione del periplo tutto interiore di Paolo, Adriatico sfalda la topografia di una città (Bologna, mai esplicitamente menzionata), ridisegnandola in una slabbrata fluttuazione onirica. Il tempo si dilata, sospende, imprigionando nell’incredulità dell’incubo corpi sfiancati dal sonno, dall’afa, dal desiderio, dal peso di una solitudine che è soffocamento dell’anima.
E’ il corpo di Francesca che in un magistrale piano sequenza fende lo spazio, pochi metri, mille chilometri, e rimbalza sulla barriera sonora che separa il corpo del film dal suo pre-testo: la morte di Luca, l’assassinio di Raimondi. Il caso Biagi, esplicito riferimento pubblico, politico, contingente della sceneggiatura di Adriatico e Stefano Casi, è il prisma in cui si origina e rifrange l’essenza individuale e universale del film: il dolore della perdita, la ricerca di un fantasma, l’elaborazione del lutto. In un allucinato paesaggio di solitudini urbane, il Paolo di un intensissimo Corso Salani, unico che solo non era, insegue allo sfinimento un’ombra che dissolve nel lucore mattutino: l’altro, Luca, parte complementare di un tutto, rapita dal vento di sera (“Legati fragilmente al filo della vita come foglie che basta un poco di vento a far volare via“, la citazione da Koltès posta in esergo al film). Paolo scortica le nocche su un muro, come juliette Binoche nel Film blu di Kieslowski, epitome di un cinema della perdita, rifiuta la condivisione di una pena troppo grande per essere detta e indugia alle lusinghe del desiderio, per poi rifiutarle: stazioni che instradano all’accettazione di un addio e di un nuovo sé, mutilo, dimezzato.
Il vento, di sera è però pure il primo vero film gay italiano da tempo immemore. Non tanto perché sulla dorsale del tema universale della perdita Adriatico innesta le costole di una doverosa, quanto scolastica, critica sociale al mancato riconoscimento, non solo istituzionale, delle coppie di fatto: è l’aspetto meno riuscito del film, quello più volontariamente didascalico. L’interesse vero dell’elemento omosessuale de Il vento, di sera è lo sguardo dell’autore, la definizione di corpi, personaggi e dinamiche tra essi che ne scaturisce; Adriatico non media, per tema del mainstream, come Ozpetek: il suo è un film gay senza compromessi, senza ipocrite titubanze. A farne spese è il femminile: filtro irrinunciabile per guardare all’omosessualità in Ozpetek, in Adriatico la donna (Francesca) è necessaria ad una definizione contrastiva dell’identità omosessuale. L’inevitabile passaggio attraverso la misoginia per la specificazione di una singolarità gay, altrove percorso e superato da decenni, viene ora necessariamente (ri)vissuto (da Adriatico, come pure in parte da L’imbalsamatore di Garrone) in un cinema italiano ancorato ad un Paleolitico della rappresentazione dell’omosessualità. Sia il benvenuto, allorché si accompagna ad una riuscita di cinema tout court composita e stimolante quale Il vento, di sera.

Eccellente metafora della condizione dei gay drammatizzata dalla perdita avvertita dalle vittime del terrorismo, Il vento, di sera di Andrea Adriatico crea immediatamente un’atmosfera avvincente che non cala mai fino alla sua conclusione magnificamente riflessiva. Segno potente di un cinema italiano rinvigorito, il film parla al più vasto pubblico europeo che sperimenta l’aumento del terrorismo interno mentre si confronta con i temi della discriminazione nei confronti dei gay. Fredde, generalmente effettuate a spalla, le riprese notturne evocano immagini ipnotiche che accompagnano un racconto semplice e umano. Le migliori prospettive commerciali sembrano essere nei mercati urbani di alto livello e nei festival nordamericani.
Piuttosto che osservare le cause e gli effetti sociali del delitto politico, come accade in film italiani come Lettera aperta a un giornale della sera di Francesco Maselli o Buongiorno notte di Marco Bellocchio, Adriatico (con il co-autore Stefano Casi) si concentra qui su una persona amata dalla vittima e sopravvissuta.
Questa permanenza dall’inizio della sera fino all’alba, attraverso le strade di Bologna, assume una qualità sua propria, così che alla fine le questioni centrali del Vento vengono sviluppate in una direzione del tutto differente rispetto a quello che le scene iniziali suggerivano. Il fattore tempo e il sentimento del girovagare evocano memorie di film differenti ma chiaramente influenti come La dolce vita di Fellini La notte di Antonioni. Tuttavia Adriatico, veterano regista teatrale con tre cortometraggi al suo attivo, afferma una voce personale nel suo bel debutto.
La citazione dell’autore francese B. M. Koltès “Basta un po’ di vento per farci volar via” introduce il racconto, che inizia con un montaggio di primi piani di enigmatici messaggi su telefoni cellulari. Paolo attende l’arrivo del suo partner Luca (Luca Levi), mentre da un’altra parte il più anziano Marco pedala verso casa. Le immagini granulose e una regia nervosa, perfettamente accompagnata dallo snervante contrabbasso pizzicato nella colonna sonora di Roberto Passuti creano un’atmosfera di tensione.
All’improvviso Marco viene ucciso all’entrata del palazzo in cui abita, verso cui anche Luca si sta dirigendo. E Luca, passante e testimone innocente, viene colpito alla schiena. I titoli di testa compaiono a 19 minuti buoni dall’inizio, subito dopo una straordinariamente lunga carrellata sulle stordite reazioni alla sparatoria e sullo shock subito da Paolo e dall’affettuosa vicina Francesca (Francesca Mazza).
Adriatico nega agli spettatori quelle informazioni che Paolo non saprebbe: il suo essere lasciato all’oscuro sulle condizioni di Luca da parte dei medici dell’ospedale è doppiamente impressionante perché Paolo, a cui non è riconosciuto il diritto di essere il compagno di Luca per la lagge italiana, non è un parente. Solo dopo aver ascoltato per caso un giornalista Paolo apprende che Luca era morto all’arrivo.
Più avanti Paolo apprende da un telegiornale visto su una televisione nella vetrina di un negozio che Marco era un sottosegretario del governo e che è stato ucciso dai terroristi. Le notizie arrivano tanto rapidamente quanto facilmente vengono tralasciate, ma il loro valore consiste nel rendere insignificante la perdita di Paolo mentre egli vaga incespicando per le strade di Bologna, i cui silenzi sono regolarmente feriti dall’urlo delle sirene. La sua situazione peggiora dopo un’amara conversazione telefonica con la madre di Luca (Marina Pitta), che gli ordina di lasciare l’appartamento condiviso da lui e da suo figlio.
Nel frattempo, Francesca assume su di sé il dolore di Paolo quasi come se Luca fosse il suo stesso compagno e intraprende la sua personale forma di trascinamento notturno, ma con molto minore impatto emotivo.
Un incontro casuale tra Paolo e un uomo solitario di nome Momo (Fabio Valletta) conduce a un inatteso spettacolino in un bar gay, dove il film punta brevemente a un più esplicito tema politico. Le cose finiscono su una nota alla Antonioni quando Paolo, dopo aver letto i titoli che confermano il duplice omicidio, vaga in un parco all’alba, solo e in meditazione.
L’effetto finale è quello di una quasi perfetta storia circolare, la cui fine aperta non avrebbe potuto essere stata prevista, eppure sembra il risultato di una ricerca naturale, misteriosa e insicura. Come espressione di un gay urbano contemporaneo alla ricerca di un significato in mezzo al caos, Il vento contiene una universalità che preannuncia una duratura opera d’arte.
Il Paolo di Salani parte in modo dimesso e costruisce un’intensità che raggiunge una fioritura emotiva nei momenti finali. Mazza dà forma a Francesca con più paura di quanto sembri giusto. Le brevi apparizioni di Ferretti, Pitta e Paolo Porto come proprietario del caffè sono potenti, mentre il Momo di Valletta è ben equilibrato.
Nella combinazione di compositore, montatore e autore della colonna sonora, Passuti fornisce contributi indispensabili, creando tessiture sonore complesse e stabilendo il ritmo del film in un modo che rimane.

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(…) Il vento, di sera non è un viaggio nel dolore che segue un lutto, né la storia della sua più o meno ortodossa rielaborazione, come è stato il caso de La stanza del figlio di Moretti o di Sotto la sabbia di Ozon, che tentavano la via dello scavo psicoanalitico di chi sopravvive, ma l’occasione per uno spostamento del punto di vista, per uno scarto della visione. Paolo, cui Corso Salani presta la stessa introversa passionalità di tutti gli Alberto che ha interpretato nei suoi film da regista, è di fatto un naufrago, un uomo sospeso cui il destino ha tolto d’un lampo passato e futuro. La condizione di chi non ha più nulla da perdere non è forse invidiabile, ma è quella ideale per essere disponibile a vedere e a sentire davvero. Si può guardare il mondo da una prospettiva non mondana. Senza i percorsi precostituiti di chi ha qualcosa da fare, senza un tempo scandito dagli impegni quotidiani può capitare, ad esempio, di lasciarsi andare per un po’ al sesso con uno sconosciuto. E ogni cosa assume il sapore della prima volta: il suono dell’autoambulanza che passa, così assordante, pare di non averlo mai udito. Un televisore acceso dietro una vetrina, in cui la speaker presumibilmente annuncia l’attentato, appare, torna ad apparire, per quello che è: un evento misterioso.
Non c’è ombra di giudizi nel film di Andrea Adriatico, né la tentazione dell’instant movie sul fatto di cronaca, solo un pietoso esercizio di attenzione, la registrazione dell’acuirsi esasperato delle sensazioni negli stati di straordinaria vulnerabilità. E non è poco.
Non c’è ancora una vera e propria distribuzione per il film di questo neo-cineasta dalla lunga carriera teatrale, solo un’agenda di singole proiezioni nelle più grandi città italiane. C’è da augurarsi che la partecipazione al Forum della Berlinale non rimanga una prestigiosa vetrina.

Marco Biagi (alla sua uccisione s’ispira il film) è un uomo di governo che di notte in bici percorre il tragitto dalla stazione di Bologna fino a casa. Abbandonato, non ha scorta perchè è solo un “ingranaggio”, la tessera di un disegno, segnata inesorabilmente a sangue. Il vento, di sera si fa “dramma sociale”, ipertrofica esposizione di conflitti metaforici. Nell’attentato è coinvolto un altro “ingranaggio”, una persona comune, l’amore omosessuale di Paolo (Corso Salani). Il dramma si manifesta nel potere dei simboli, sfumando l’intera gamma sensoriale per trasmettere il messaggio. Come gli assassini che tramano attraverso il gergo criptato degli “sms”, incipit che sospende la normalità e intensifica l’emotività. Il vissuto è frutto di una dolorosa separazione, che si prolunga in un lungo piano sequenza collocato nella zona limite della coscienza collettiva. Notte, solitudine, deserto, morte: parole-chiave per un cinema che sviluppa la sua poetica, tra lirismo e violenza, simbolismo e crudeltà del reale. Essenze teatrali in osmotica scoperta di sostanze intime, di quel vento interiore sibilante su lividi spazi scenici. Nel vi(r)aggio esistenziale, lacerati corpi sconosciuti e sonorità scritturali strozzano i lamenti dell’anima. Il drammaturgo Andrea Adriatico (esordio al lungometraggio) da voce ai rumori di fondo, alla parola che si rifugia oltre il pensiero, perchè l’angoscia esista e non sia solo mostrata. Questo è cinema al tempo stesso totale e incompiuto: vuole suscitare interesse e isolarsi in un astratto valore di verità. È rappresentazione che abiura ogni limite, accetta l’irregolarità e l’imperfezione, esclude ogni retorica e ripropone materiale espressivo in sinestetica collisione. Proprio sui margini del quadro, nei fuori fuoco di contrapposizione visiva, attecchisce il dolore sconfinato e totalizzante: Paolo è la perdita di un “centro” narrativo, di una memoria comune, di ogni prodotto spontaneo del pensiero, del materiale naturalmente strutturato per temi e logiche di stile; è l’abbandono definitivo del principio d’imitazione, il predominio dell’elemento inconscio, la cancellazione di ogni distanza dall’oggetto o l’illusione della pura oggettività. In un istante, con leggerezza, senza clamori, l’universo è imploso forse per sempre. Nella notte più lunga, il buio, le inestricabili “presenze” di una città che dorme, la vita rubata, resistono al vento di cronaca, tramontana gelida che pietrifica emozioni.

(…) Primo lungometraggio di Andrea Adriatico, regista e creatore dei bolognesi Teatri di Vita, Il vento, di sera è un film che merita di essere visto, per la sua godibilità formale che trasmette un messaggio di forte impegno politico. Selezionato per il Forum del cinema nuovo del 54 Festival di Berlino (proiezioni per tutta questa settimana e fino al 9 febbraio), la pellicola, che uscirà a Bologna il 19 febbraio, è un canto di solitudine che diventa immediatamente un manifesto di rivendicazioni civili, una presa di posizione chiara sui diritti calpestati anche in paesi considerati “civili” come l’Italia. E senza toni melò, restituisce ai sentimenti un valore profondo, sconosciuto alla cultura imperante del rapido consumo. Scritto a quattro mani con Stefano Casi (direttore artistico di Teatri di Vita), Il vento, di sera è una storia metropolitana intessuta su una tragedia contemporanea collettiva, per entrare subito – e amplificarla – nella personale vicenda del protagonista. Dalle prime immagini si riconosce la stazione di Bologna, un uomo è arrivato, mentre qualcuno si scambia frenetici sms col telefonino. Un montaggio rapido accosta in parallelo altri eventi di quella serata. Paolo (che ha la faccia azzeccata di un bravissimo Corso Salani) è in doccia, quando riceve la telefonata di Luca, il suo compagno, che sta rientrando a casa. La macchina da presa torna sull’uomo arrivato alla stazione (Ivano Marescotti) che sale ora in bicicletta – e subito la memoria riporta a Marco Biagi, al suo terribile omicidio. Pochi lunghi minuti di un montaggio sempre più concitato e i terroristi sparano e fuggono. E nella fuga ammazzano anche Luca. Da qui parte il viaggio di dolore di Paolo, accompagnato da Francesca (un’intensa Francesca Mazza), la sua vicina di casa. Prima all’ospedale dove subisce il rifiuto dei medici a dargli notizie (sono autorizzati a darle solo ai familiari! ahinoi, l’inciviltà!) e poi in giro per una Bologna notturna, dai caldi colori pastello (la fotografia è di Gigi Martinucci), che attrae e respinge, in un continuo altalenare di emozioni, fermo restando il forte legame tra Paolo e Luca. Forte e imperituro anche dopo la frase finale di Paolo, sussurrata con un filo di voce: “Stammi vicino”.

Corso Salani ritorna dopo più di dieci anni da “Il muro di gomma” ad interpretare un film in cui il delitto politico è la chiave d’accesso. Il regista, mette qui in moto un improbabile omicidio commesso dalle Brigate Rosse non esplicitamente citate, ma rintracciabili in una serie di segni che ce ne dipingono il volto: le somiglianze col delitto Biagi, la scritta sul muro che Paolo legge con orrore, la descrizione di un Sottosegretario che rientra in casa senza scorta, il titolo, infine del giornale del mattino, “Attacco al cuore dello Stato”. Quello che più interessa Adriatico è, però, descrivere la tragedia umana che segue una scomparsa improvvisa. Se è un film politico questo lo è più per la naturalezza e delicatezza con cui tratta il tema dell’omosessualità, la stessa naturalezza e delicatezza con cui la vive il protagonista. E’ questo spirito, gentile e allo stesso tempo rigoroso, che pare un atto politico necessario, quello di non affidare le cose, la vita ad inutili tabù. Bravi tutti gli attori (oltre ad Ivano Marescotti registriamo la partecipazione straordinaria di Giovanni Lindo Ferretti e Alessandro Fullin), alcuni forse troppo legati al teatro per sganciarsi dalle tavole del palcoscenico nel giro di un film (la pur brava Francesca Mazza). Il tutto avviene con un ritmo lento e descrittivo, analitico. Il film delle virgole potremmo forse chiamarlo, da quelle del titolo a tutte le piccole ed interminabili pause che lo avvolgono per l’intera durata, un film che procede lento tra raffiche di vento improvvise che ti portano via la vita e che ti cambiano l’esistenza mentre sei già sull’orlo, quando basta un soffio a farti cadere giù o a portarti da un’altra parte. Anche se in questo mondo non a tutti è dato di volare, perché: “Se sei ricco prendi l’aereo e voli, ma se sei povero non voli da nessuna parte, resti qua. Non è come dici tu che arriva il vento e ti porta via. Tu resti”.

Viaggio al termine di una notte tragica da parte di Paolo, compagno dell’appena assassinato Luca, la cui unica colpa è quella di trovarsi rincasando a essere involontario testimone dell’uccisione di Marco Biagi.
Ah, Bologna…Bologna dei clichés socio-culturali, Bologna di Via Indipendenza, della ‘Montagnola’, di Piazza Maggiore, Bologna de(gl)i (eterni) Damsiani, Bologna dei punkabbestia stagionali con pitbull incorporato, Bologna di Pazienza, Bologna che… praticamente non esiste, nell’esordio sopra i sessanta minuti di Andrea Adriatico ‘fondatore’ con Stefano Casi (qui co-sceneggiatore) di Teatri di Vita, una delle realtà più interessanti all’interno del panorama ‘Teatri 90′ del nostro paese. Un aquilano che Bologna l’ha conosciuta “arrivandoci”, e che chissà se per questo ce ne restituisce un’immagine che finora al cinema la città felsinea forse non aveva mai avuto: in un set tutto strade semideserte, in cui i tracciati viari suggeriti dagli edifici fanno da cassa di risonanza per echi di suoni-rumori urbani lontanissimi, Gigi Martinucci assesta su digitale una fotografia calibrata che letteralmente slava e scontorna, diluendola in un pallore deforme, la tipica iconografia emiliano-romagnola. E’ su questo arredo urbano – visivo e sonoro – che Adriatico trasfigura un recente atto di violenza politica italiana. Ma se per Martinelli l’affaire Moro rimaneva registicamente su un piano di devota didascalicità con sporadici rifugi nel manierismo paratelevisivo, se ancora per Giordana il terrorismo si presentava come un microcosmo storico di ‘scelta’ sociale, aderendo al quale la madre di famiglia Giulia disarticola un (altro) equilibrio sociale, se infine per Bellocchio la prigione del popolo si porgeva come un non-luogo asfitticamente ideologico, dentro il quale trasfigurare attraverso gli occhi di Chiara la storia e riflettere sul potere dell’immaginazione in quanto libertà, per Adriatico l’attentato a Marco Biagi (un ombroso e tacito Ivano Marescotti) altro non è che un motorino d’avviamento narrativo. Un brusco e casuale irrompere della cronaca/storia italiana dal profondo senso politico in un universo periferico dal contesto e significato dolorosamente umano; ed il semplice movimento di macchina ‘andata-ritorno’ che collega i due vicinissimi luoghi del delitto materializza questa sensazione di parallelismo tra universi sociali.
Il vento, di sera, che sferza fino alla decomposizione un habitat a prima vista riparato, diventa da questo momento un film di corpi – gente (divenuta) apolide – ciondolanti senza apparente meta e soli nell’approccio al dolore e/o al lutto subito. E’ così Francesca (Francesca Mazza), vicina di casa di Paolo – che vediamo fuoriscena tradita dal marito (“Sono sola anch’io…”) – e che invano tenta di restargli accanto. Corpi seminati casualmente nella notte bolognese; come quello di Giovanni Lindo Ferretti, vagabondo lanciatore di freccette su di un portone in legni che sussurrando parla del Mondo: “E’ stato un tempo il mondo giovane e forte, odorante di sangue fertile… Il nostro mondo è adesso debole e vecchio, puzza il sangue versato è infetto… Povertà magnanima, mala ventura, concedi compassione ai figli tuoi…” e dal quale Paolo si allontana, avvicinando la Julie di Film Blu in quanto a nocche sanguinanti. Ancora corpi che sembrano attrarsi in nome di un istinto aggregativo fisico come quello di Momo, giovanotto che forse si innamora di Paolo e che di certo tenta di sedurlo, tra le statue di Porta Lame. Corpi che invece in tutti i casi si respingono o semplicemente allontanano, in nome di un recupero dell’autoisolamento come possibile salvezza dal dolore. Sono atmosfere e sensazioni, queste, che Adriatico aveva già essenzialmente esplicitato ne L’auto del silenzio, suo secondo mediometraggio, in cui una glaciale Eva Robin’s vestiva i panni di una donna sola che, come Paolo/Corso Salani, compiva un viaggio errabondo nella Bologna notturna in perenne ricerca di conformità sensoriali con il prossimo, per superare un silenzio comunicazionale in cui l’aveva piombata un’improvvisa crisi esistenziale. Ma mentre in tale prima (endless) ‘midnight run’ la protagonista elaborava il proprio lutto in un silenzio dialogico, che era soprattutto manifestazione del proprio essere’interno’ (mentre il ‘corpo’ esteriore era letteralmente la sua Honda HRV) ne Il vento, di sera Adriatico tradisce la coerenza comunicativa tutta gestuale, mimica e fortemente simbolica del suo cinema (e teatro!), dotando i propri corpi drammatici di un metodo espressivo che nulla aggiunge, ma che solo ripete e stucca: la parola.

La cosa che fa più piacere parlando di Il vento, di sera è sapere che possano esistere in Italia dei metodi alternativi di fare e distribuire il cinema, senza necessariamente passare per i finanziamenti statali o le major. Queste ultime, in particolare, troppe volte hanno distribuito titoli italiani mandandoli allo sbaraglio nei multiplex contro i colossi americani, quando sarebbe stato in molti casi più semplice fare una strategia più oculata per raggiungere dei risultati migliori.
Ben venga quindi la scelta di Andrea Adriatico, regista e produttore de Il vento, di sera, far uscire il suo film con la Vitagraph, piccola distribuzione bolognese, che ha optato per una circolazione della pellicola scaglionata nel corso delle settimane, in poche sale accuratamente selezionate a seconda del pubblico che le frequenta.
La cosa migliore per un film di questo tipo, nato dalla necessità di parlare di un evento triste della recente storia italiana come la morte di Marco Biagi, «un punto di riferimento – come ci ha detto lo stesso regista – che vuole far viaggiare su due binari paralleli lo sconforto collettivo e il dramma privato». Un’opera intimista che ha anche nel suo stile totalmente libero un punto di forza, «…a sottolineare i passaggi più delicati della narrazione. E una parte molto importante la fa la cura dedicata alla traccia sonora, un’attenzione che deriva proprio dalle esperienze teatrali con la compagnia di “Teatri di vita”».
Ma pur essendo naturalmente fondamentale l’esperienza in palcoscenico di Andrea Adriatico, Il vento, di sera è un’opera cinematografica a tutti gli effetti, aiutata in questo dal gruppo di attori che hanno partecipato al progetto. A partire da Corso Salani, interprete già apprezzato nel corso degli anni in due film di Marco Risi, Muro di gomma, opera che cercava di dare delle risposte alla strage di Ustica, e Nel continente nero, dove recitava in stile Trintignant al fianco di Diego Abatantuono in una edizione aggiornata de Il sorpasso. Qui veste i panni di un protagonista distrutto dal dolore della perdita del compagno e, pur non conoscendo nessuno dell’affiatata compagnia, ha partecipato con entusiasmo al progetto dopo aver letto la sceneggiatura, «uno sguardo particolare sulla dimensione personale dell’elaborazione del lutto». Una riflessione fatta anche dalla protagonista Francesca Mazza, particolarmente emozionata, dato che «dopo 22 anni di palcoscenico, ho avuto l’occasione di esordire al cinema con un progetto che mi ha coinvolto in maniera totale». Il vento, di sera è quindi un film che ha coinvolto emotivamente tutto le persone che ci hanno lavorato, compreso Giovanni Lindo Ferretti, leader storico dei C.C.C.P. e dei C.S.I. Il cantante ha una piccola parte nel film e, soprattutto, attorno a una sua canzone ruota tutto il film, una visione incredibile dell’origine del mondo. Speriamo che la bella accoglienza avuta al Forum di Berlino possa ripetersi anche presso un pubblico italiano che ha bisogno di poter scegliere di vedere anche film diversi dai panettoni e dai paradisi artificiali.

C’è sempre un momento, nella vita di ogni uomo, in cui il destino sembra guardarti negli occhi e spazzare via ogni certezza. Una folata di vento, gelida e veloce, sbatte con violenza sull’asfalto tutti i ricordi, i gesti conosciuti a memoria, le voci del passato. Il vento, di sera. Esiste una dimensione privata, nascosta, quasi muta in ogni tragedia pubblica. Si tratta di un dolore che non fa notizia, che non chiede indignazione e rispetto alla Nazione, che rinuncia alla rabbia e alla vendetta per chiudersi nell’angoscia di quattro nostalgiche mura, oppure per vagare per la città in cerca di tracce astratte, significati senza significanti, simboli indecifrabili della barbarie metropolitana. Dichiaratamente ispirato ai fatti di Bologna del 19 Marzo 2002 (l’assassinio del Prof. Marco Biagi, docente di diritto del lavoro all’Università di Modena e consulente del Ministro Maroni per la riforma del mercato del lavoro, avvenuto in Via Valdonica per mano di brigatisti), il primo lungometraggio di Andrea Adriatico Il vento, di sera scivola come un blues notturno e solitario proprio sulle note di questa dimensione intima del dolore, regalandole voce e dignità tra le maglie di un’informazione distratta e ipocrita. Seguendo l’errare infinito, in bilico tra sogno e realtà, di Paolo, un uomo che a seguito dell’omicidio di un onorevole ha perso il proprio compagno, reo di aver visto in volto gli assassini, avvertiamo infatti una crescente atmosfera di tensione che interessa tutta una città ripresa nel momento del massimo sconvolgimento. Eppure il viaggio all’interno della notte del protagonista si tramuta ben presto in un viaggio dentro se stesso, alla riscoperta dei propri limiti e delle proprie paure, anche in relazione alle ingiustizie di una società che trasuda indifferenza, società qui spiata dal buco della serratura, sotto la pallida luce dei lampioni. E Bologna sembra proprio il luogo perfetto per animare questo dramma coniugato al plurale: città piena di contrasti, costretta a convivere con quel senso di tolleranza, multiculturalità e solidarietà che da sempre la contraddistinguono; città muta sotto la spessa superficie di rumori di fondo, che muore e si rigenera continuamente, sulle spalle di tutti i gruppi di minoranze che, proprio di notte, qui trovano riparo, benché riuniti in spazi angusti, veri e propri ghetti architettonici e mentali; città a circuito circolare, protetta da solide mura di cinta, in cui il senso di smarrimento s’incrocia con la paura di perdere i propri obiettivi, di fermarsi al punto di partenza. Quelle voci della notte che contraddistinguono l’abituale scorrere e perdersi di vite nel capoluogo emiliano rappresentano per il protagonista del film gli echi di un dramma che non ha spiegazione, e allo stesso tempo si pongono come richiami di rassegnazione e di emarginazione: minoranze etniche, sessuali e religiose, un mondo di freaks i cui diritti si manifestano soltanto nelle ore notturne, prima che la luce del giorno li occulti nuovamente per non infastidire le coscienze della città che dorme e che lavora. Straordinario in questo senso il cameo di Giovanni Lindo Ferretti, leader storico dei CCCP – poi CSI – sordido clochard i cui gesti ripetitivi, meccanici, associati ad una nenia tradizionale, ricordano che la paura più grande dell’uomo è la solitudine, e che la morte è una tragedia tanto grande quanto lo spazio di silenzio e solitudine che riesce a provocare attorno a sé. Andrea Adriatico, apprezzato autore di cortometraggi e regista teatrale d’indubbia esperienza, sceglie di adottare uno sguardo obliquo, inquieto, oltre le apparenze, in cui i volti si confondono con lo sfondo e il paesaggio si sostituisce più volte ai protagonisti. Discreto e personale, il suo stile riesce a rubare luce al territorio del socialmente invisibile, e coniuga con rispetto e senza retorica etica ed estetica. In un dramma notturno, a riflettori spenti, il modo di utilizzare le luci della città assume un’enorme importanza: insegne, lampioni, riflessi, ombre sui portici, colpiscono i personaggi con insolenza, mostrandone i moti più inconsapevoli, facendo deflagrare il dolore nei loro volti schiacciati, resi ancora più piatti e meno definiti dalla scelta della tecnologia digitale per le riprese, che nell’insieme ha un ruolo non secondario nel dare al film un ritmo cadenzato, oggettivante, del tutto convergente con la progressione narrativa. C’è un senso generale di decadenza nella costruzione di questo atipico percorso di formazione, tipico dei racconti di fine millennio o dei poemi metropolitani in prosa. Omosessualità, terrorismo, emarginazione sociale, temi importanti del dibattito sociale italiano, vengono qui presentati all’interno di una cornice normalizzante, al fine di universalizzare un sentimento di sofferenza che altrimenti rischierebbe di essere incomprensibile a molti. Ed è invece nella speranza di una complice comprensione, di un’amara solidarietà che il film trova la propria ragion d’essere, nella sua capacità di descrivere con attenzione un dramma che interessa tutti come uomini e come italiani. Alla fine della notte, delusi per non aver trovato le risposte alle nostre eterne domande, guardiamo con sospetto, quasi con timore al nuovo giorno che sta nascendo, coscienti di essere finalmente e tragicamente parte del tutto.

(…) Adriatico (con il co-sceneggiatore Stefano Casi) rende efficacemente questi temi molto reali e legittimi sulla non uguaglianza delle coppie gay di fronte alla legge, ma non si limita a questo. La vulnerabilità di Paolo per un trattamento così ingiusto serve solo a versare sale sulla ferita di una perdita profonda. Egli è stato privato, la struttura della sua vita, la lunga relazione d’amore al suo centro è adesso spezzata e soffiata via come così tante foglie in una tempesta.
Il film segue Paolo attraverso i suoi vagabondaggi guidati dal dolore attraverso le strade di Bologna, e ciascun incontro (con Francesca, con un barista gentile, con un bello studente che lo rimorchia) illumina la profondità della sua disperazione. Corso Salani incarna pienamente il ruolo di Paolo e comunica efficacemente il tumulto emotivo della situazione. L’uso frequente della macchina a spalla aggiunge un ulteriore senso di agitazione e l’oscurità delle strade notturne intensifica la solitudine esistenziale che è il cuore del film.
Il fatto che la morte di Luca sia dovuta a un atto di terrorismo investe il film con esattezza. Chi non è consapevole nel mondo di vivere a un livello di rischio più alto oggi rispetto a solo pochi anni fa? La casualità, l’arbitrarietà di chi capita di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato è stata incisa nella coscienza del mondo. E i sopravvissuti sono lasciati a far fronte a ciò come meglio possono.